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Quinto messaggio – Kabul

Sabato 16 Marzo 2002

Kabul, una enorme distesa di case basse in una conca circondata da montagne, così si presenta la capitale dell’Afghanistan dall’alto: forse 2-3 milioni di persone ma nessuno sa dare stime precise, oggi un misto di pashtun (tra cui molti taleban), di tagiki (i mujaheddin dell’alleanza del Nord), di hazara, i mongoli discendenti da Gengis Khan e Tamerlano.
Anni di occupazione sovietica hanno lasciato l’impronta nelle costruzioni di cemento tipicamente russe, così come molte persone istruite parlano il russo correntemente; in ospedale molti infermieri hanno grandi difficoltà ad esprimersi in inglese, mentre tutti conoscono il russo.

Passeggiando per la città respiri comunque l’odore della guerra, di una lunga guerra che ha devastato questo paese da oltre venti anni: quasi tutti gli edifici portano i segni di proiettili più o meno devastanti, muri crivellati, cornicioni a pezzi, per le strade e marciapiedi cumuli di pietre e buche dappertutto.

Sembra che nessuno abbia potuto o avuto il tempo di riparare nulla.

A Kabul esisteva una fabbrica del pane che serviva tutta la città: si vedono gli squarci nei muri di oltre mezzo metro, i razzi l’hanno ridotta ad una rovina fantasma.

Coco Jalil (il Signor Jalil), un autista dell’ospedale, mi racconta (un pò in inglese un pò in farsi) di quando combatteva contro i russi e poi contro i taliban di Al-Qaeda da un quartiere all’altro, a colpi di mitragliatrice: ha fatto 7 anni di carcere per essere stato partigiano contro i russi.

Carthasè era un quartiere di Kabul che rappresentava l’ingresso simbolico alla città, disteso tra due colline incorniciate ancora dalla muraglia costruita dai mongoli di Tamerlano: Carthasè è stata rasa al suole due volte, prima dai sovietici, e negli ultimi mesi dagli americani.

L’ho percorsa in auto, adagio, in silenzio: per 12 km non esiste più una casa, solo macerie, polvere, ferri divelti nel cemento armato.

Non un filo d’erba nè un albero, solo tronchi abbrustoliti e spezzati, auto squarciate come lattine di coca-cola.

Era un quartiere popolare, nessuna fabbrica, nessuna caserma, solo case, eppure la guerra “chirurgica” lo ha annullato.

Vedi gente che si aggira in bicicletta, qualche donna in burka a piedi, nessun segno di ricostruzione.

Trovi proiettili e bossoli dappertutto, i bambini ci giocano, te li vendono, qualche volta ci lasciano anche una mano se ne trovano uno non esploso.

Per le strade donne coperte da burka sporchi e stracciati e bambini scalzi ti chiedono l’elemosina; un traffico caotico di biciclette e vecchie auto russe e giapponesi spesso senza targa, con autisti senza patente, rende il centro un posto invivibile, ed infatti due e tre investiti per strada arrivano in ospedale tutti i giorni.

La notte elicotteri a volo radente ed aeroplani continuano a volare, facendo tremare i vetri, segno che le operazione militari continuano.

Ogni mattina alle 5 vengo svegliato dal muezzin che intona le litanie al microfono in una moschea a qualche centinaia di metri da casa nostra.

Ieri è stato il capodanno musulmano: anno 1381, cominciando a contare da quando Maometto ha lasciato La Mecca per Medina. Doveva essere una giornata di festa, tranquilla; la gente per strada, si aspetta l’inizio dell’anno scolastico e l’arrivo del vecchio re in esilio da Roma: segni di voler cambiare pagina nonostante tutte le difficoltà.

Per l’ospedale di Emergency invece è continuata la routine: alle 2 del pomeriggio arriva una manciata di bambini saltati su di una mina.

Una bambina di 8 anni, Salima, perde la mano sinistra, più ferite alle gambe; un ragazzino ha il polmone bucato da un frammento: quasi un litro di sangue nel cavo toracico; un altro sanguina per una lesione all’arteria femorale destra ed ha l’intestino bucato da frammenti metallici e così di seguito.

Finiamo alle 10 di sera lavorando su due sale operatorie. Parlo con alcuni genitori: loro dicono che i bambini sono avvisati sul pericolo delle mine, dove e come sono.

Del resto Kabul è tappezzata di murales con i disegni delle mine. L’incidente è avvenuto a 8 km da noi, periferia della città, zona minata dai taliban per proteggere un loro accampamento la notte.

A casa troviamo risotto e ragù di capra per festeggiare il capodanno: la vita a Kabul continua.
Silvio

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