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Primo messaggio – Iraq

lunedì 20 ottobre 2003

Sulaimanya –  IRAQ

“Verso le 6 di sera – stavamo uscendo dall’ospedale – arriva un pick-up carico di gente affannata che urla: scaricano con attenzione, avvolto in un telo, un corpo che sembra morto. E’ una ragazza minuta, uno scricciolo che peserà 40 kg, orrendamente ustionata, ansimante, respira appena. Haffan, il chirurgo kurdo di guardia mi dice subito “ustione del 100%, non ce la farà”.
L’ospedale di Emergency a Sulaimanya, nel Nord-Iraq, ha di recente aperto un reparto di 20 letti proprio per gli ustionati, 10 adulti e 10 pediatrici. Il resto dell’ospedale, 100 letti in tutto, è occupato da feriti da guerra: le mine e “oggetti inesplosi” (cluster bombs, granate…) al primo posto, perché qui nel Kurdistan iracheno per tre milioni e mezzo di gente dicono che ci siano 10 milioni di mine sparse nei campi, terreni minati prima durante la guerra tre Iran ed Iraq, quindi da Saddam Hussein a fine anni ottanta quando tentò la depurazione dei Kurdi distruggendo più di 4000 villaggi, minando i campi, lanciando i gas, infine con i bombardamenti durante gli anni di embargo.
Hamida, 18 anni, non ce la farà, morirà dopo 24 ore, ma almeno morirà senza soffrire. Era una studentessa, famiglia povera della periferia della città. Kamran, l’infermiere capo del reparto ustionati, con timore e sottovoce, mi racconta che Hamida si è cosparsa di kerosene e si è data fuoco. Nel reparto altre due giovani donne sono tra la vita e la morte con una storia simile, ed è – mi dice – una usanza non rara tra le loro donne. Una di queste, Payman, ha tentato di uccidere il figlio piccolo prima di appiccarsi il fuoco, quasi sempre alle spalle c’è una storia di disperazione familiare, marito o fratelli morti in guerra, gravi difficoltà economiche, fragilità psicologica. L’infermiere continua, le donne kurde sono molto sottomesse agli uomini, fin da bambine devono solo ubbidire, crescono nelle paure più assurde e così da adulte restano labili dentro; la vita dura, la guerra, i campi minati sono l’ultimo passo verso la tragedia.
Sono passati due giorni ed anche Payman sta spegnendosi. Oggi è venerdì, giorno festivo per l’islam, mi chiamano in ospedale perché Payman, cosciente, apre ancora gli occhi, lamenta molto dolore, aumento la morfina ma non c’è altro da fare, le mani sono nere e dure come cuoio, è tutta gonfia di liquidi, non urina più.
Quando tentano il suicidio è facile intuirlo, sono ustionate dalla testa in giù, hanno i capelli che puzzano di kerosene: si versano la benzina in testa e si appiccano il fuoco. Ma nessuno lo ammette, è un disonore anche per i parenti.
E Kamran va oltre: è angosciante anche per lo staff kurdo stare 8 ore a contatto con malati così gravi, soprattutto per le giovani infermiere, che sovente devono essere cambiate di reparto prima che vadano in depressione.
Ma per lo più le donne si ustionano per cucinare o per riscaldare la casa, usano dei rudimentali fornelli fabbricati dagli artigiani locali, delle specie di bombole di benzina miscelata con aria che si incendiano e scoppiano con facilità. E con loro arrivano in ospedale anche i bambini piccoli, sempre in casa con le madri, anche loro con gravi ustioni.
Certo che i fornelli importati dai paesi ricchi sono più sicuri, ma costano cari, e quando non ci sono i soldi, meglio correre qualche rischio…E mi viene la rabbia a pensare che in Iraq, paese dalle enormi riserve petrolifere, i poveri debbano morire bruciati perché non hanno i mezzi per cucinare e riscaldarsi in maniera sicura.
Mentre torno a casa, nel traffico caotico di una città araba, dalla moschea sento il muezzin cantare le litanie dell’imbrunire, e penso che non c’è solo la guerra spettacolo: Payman sta combattendo – e perdendo – la sua guerra, senza clamore…”

Silvio Galvagno

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